IL CAPPELLETTO SE NE FREGA

tortellini

“Questa minestra per rendersi più grata al gusto richiede il brodo di cappone; di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini” (P. Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, 1891)

MIA MAMMA VOTAVA DOZZA MA ERA DELLA DC
Vaglielo a spiegare a mia mamma che io preferisco i cappelletti ai tortellini.
Fiera di via Indipendenza, bestia maritata in San Paolo di Ravone, l’animale madre bolognese non può accettare che il figlio degenere si romagnolizzi e snobbi il turtléin di Bologna – per lei ancora fatta di funivie per San Luca e di stagioni irripetibili di Bartali e Niccolò Carosio, a dispetto del fantasma di città che trovo ogni volta che ci torno – in favore del suo fratello bastardaccio e contadino, il caplét all’uso di Romagna. Dice che è un controsenso. Io le faccio notare che essere DC e aver votato Dozza… beh, quello è un controsenso. “Votavo il Sindaco, non la lista: vai a farti un giro”: lo faccio, pure bello lungo, poi torno e le rendo noto che il sindaco si elegge direttamente solo dal 1993 e che Dozza era già morto da diciannove anni. Ma lei non se la ciuccia, e va a giocare a burraco, che le è salito un Ventennio come non mai: poveri i culi che pelerà al tavolo verde. Tra l’altro ora gioca al Nuovo Foro Annonario e io ho sempre paura che rimanga intrappolata nel limbo spazio-temporale del secondo piano, ma finora è andata di lusso e se l’è sempre cavata.
Però prima di uscire di casa mi guarda. Qualcosa le si è rotto dentro. Di nuovo. Sono una continua delusione. Senza posto fisso. Senza prospettive matrimoniali. E ora ho snobbato pure i tortellini.
Ma come glielo posso spiegare che è una questione di filosofia politica? Che è una scelta ideologica? Che il territorio non c’entra nulla, ma c’entra la terra e chi la calpesta? Come glielo posso spiegare che ho scelto ardendo di passione con lo spirito e non con lo stomaco?

La mia è una dichiarazione ideologica: il cappelletto è la mia battaglia.
E in casa mia la cucina è sempre stata un motivo di politica. Perché la fiorentina è di sinistra – a maggior ragione ora che stentiamo a permettercela – mentre la cotoletta era di destra.
Per non parlare del cappelletto contro il tortellino, la vera disfida culinaria… con buona pace di Francesco Nuti.

L’ANARCHIA IN CUCINA E L’ARTE DI SBATTERSENE DI ARTUSI
Pellegrino Artusi. Già. Mica che puoi contraddirlo. Non è un cuoco ma scrive IL manuale di cucina per eccellenza. Che è un po’ come Brian May che scrive l’assolo di Innuendo ma deve farlo suonare a Steve Howe degli Yes con la propria Gibson Chet Atkins perché il 5/4 lo preoccupava parecchio. Solo che Brian May ha anche una laurea in astrofisica, mentre Pellegrino aveva i piedi ben piantati nelle sue cucine… nomen omen, e ci ha regalato pure la Ricetta No. 7: Cappelletti all’uso di Romagna.
180 grammi di ricotta; mezzo cappone cotto nel burro, sale e pepe; un uovo e un rosso e un po’ di noce moscata. E brodo di cappone. Questa la formula magica dell’ambrosia della terra del Passatore… oh, fortuna poterne godere.
Ma questo è il cappelletto di come lo faceva Artusi. Come lo si può mangiare da Roberto ai Maceri, in via Roversano a Cesena, che ci si va ad occhi chiusi, come in qualsiasi locale che tenga un pacchetto di sigarette dietro il bancone per offrirne a chi si vuole fare una fumata subito dopo il caffé e ne sia poco fornito o non voglia dar fondo alla riserva personale. Però c’è anche quello della Cerina a San Vittore che è molto buono, in particolare asciutto, ma non solo. Ma parliamo di due piatti diversi. C’è anche quello della mamma di mia cognata. Ma parliamo di tre piatti diversi, perché lei il brodo lo fa alla faentina, con la galeina. C’è anche quello di qualsiasi altra famiglia di Cesena. Ma parliamo di n piatti diversi. Di cuoche diverse. Di mondi diversi. Di sogni diversi.
cappellettiIl caplét è come il ‘duro’ di Romagna: testardo, crapulone, gran compagnone individualista, più romagnolo di ogni altro romagnolo, certamente più romagnolo di quelli dell’Oltresavio, menefreghista, individualista, romantico, leale come la Polare, accogliente come un bicchiere di Sangiovese. E anarchico. Soprattutto anarchico.
Nonostante il canone di Artusi, il cappelletto se ne frega. Ogni famiglia fa il suo cappelletto, talmente modificato – dalla puntina di manzo nel ripieno al raviggiolo al posto della ricotta – da arrivare fino all’apparente bestemmia del cappelletto di sola carne al Ponte Rosso di Sogliano al Rubicone. Poi tu dillo alla Bettina che non si fa così il cappelletto… lei ha quasi 80 anni ma è ancora capace di prenderti a calci e di non darti nemmeno il lesso dopo.
Il cappelletto è la Romagna. Che dà il giro a tutti, ma non è capace di fare sistema.
Il cappelletto siamo noi quando bigiavamo a scuola per far sciopero. Chi per giocare al bowling di Ronta, chi per limonare al parchino, chi per bersi birre calde dimenticate nello zaino, chi perché ci credeva davvero.
Io mangio il cappelletto perché ci credo davvero. E perché spero che mi porti fortuna quando si tratta di limonare al parchino.

IL TORTELLINO… IL TORTELLINO È FASCISTA… 
… e se non lo è, poco ci manca.
È autoritario, di stampo militarista, così anche Hannah Arendt può sedersi e mangiarlo serena, in una delle tante osterie o pastifici di una certa Bologna che ora non è più, soffocata da un post-Concerto del Primo maggio perpetuo, ma senza musica di commiato. Il tortellino è ordine, è canone, ti permette di sgarrare, ma poi ti punisce.
Se uno fa un cappelletto diverso da un altro è uno scambiarsi ricette per farlo più buono, fare a gara a quale sia più buono, litigare su quale sia più buono, smettere di parlarsi perché si è convinti di farlo più buono.
Se uno fa un tortellino diverso da un altro, uno dei due l’è propri un imbezel. O lo sono tutti e due, se non l’hanno fatto come va fatto. Viene anche allontanato dai suoi cari, trattato come un malato contagioso e possibilmente bandito dai luoghi pubblici, che se passa vicino al Nettuno quello si volta dall’altra parte scuotendo la testa.

Il tortellino è standardizzato, convenzionale. Non mancano le disfide, ovviamente, ma si giocano sul filo della noce moscata nel brodo, con due correnti di pensiero piuttosto agguerrite che nemmeno al Bar Sport di Benni.
E anche nel tortellino Pellegrino da Frampula ci ha messo i baffi… ma, si sa, Bologna è Università, e non accetta lezioni da nessuno… dal 1891 si passa direttamente alla ricettaconfraternita made in Castelfranco Emilia della Dotta Confraternita del Tortellino: 3 uova e 3 etti di farina per la sfoglia; 300 grammi di lombo di maiale rosolato al burro, 300 grammi di prosciutto crudo, 300 grammi di mortadella di Bologna, 400 grammi di Parmigiano-Reggiano, 3 uova, 1 noce moscata per il ripieno; 1 chilo di doppione di manzo, mezzo cappone ruspante – che magari è meno “rimminchionito” di quello che pensa Artusi –, sedano, carota, cipolla e sale. E qui ci scappano 1000 tortellini. E ci scappano il 7 dicembre del 1971… 23 giorni dopo verrà approvata la legge 1024 sulla tutela della maternità, che non è una brutta cosa per chi vuole trovar sempre un piatto fumante di turtléin in brodo.
Prendetene e mangiatene tutti… e così sia, senza sgarrare, perché il tortellino non accetta sgarri. Gli sgarri son roba per modenesi, su.

LA PASSIONE E LA POLITICA. E LA PASTA
… e se poi iniziassi a parlare di tortellini in asciutto sarebbe peggio della vigilia della Bolognina in casa.
Ammetto di aver dissacrato più volte il cappelletto, arrivando pure a metterlo sulla pizza – colpa della pizzeria Ponte Vecchio di Elio e Ivan, a Cesena –, ma, nonostante lo consideri un gradino sotto a livello filosofico, non mi sono mai permesso di far del male così al tortellino. Proprio perché non lo sento così mio come il cappelletto.

Sono le deformazioni naturali di un figlio di emiliani nato in terra di Romagna. Sono le evoluzioni di pensiero di chi ha un cuore di brodo, con giusto un po’ di midollo e tanta noce moscata, con il sale che è sempre troppo e allora tocca tirarlo.
Si sbaglia. Si corregge. Si sbaglia. Si corregge.
La vita è un brodo matto.
E alla fine non credo poi che conti tanto se il cappelletto sia anarchico o il tortellino fascista…
Conta ricordarsi come si preparano. E da dove vengono.
Che poi è lo stesso posto da dove veniamo noi.

ombelico di venere

© Gian Piero Travini

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